“Io prete sposato vi racconto la mia storia”
Sono passati molti anni da questa memoria per la dispensa dagli obblighi del sacerdozio consegnata nelle mani dell’arcivescovo di Palermo di allora, il cardinale Salvatore De Giorgi, che ha lasciato nell’arcidiocesi un vivo e affettuoso ricordo per il suo impegno contro la mafia e la generosa e assidua cura pastorale.
La memoria, è stata redatta da un
prete che allora aveva una certa notorietà, fino ad approdare alle pagine di
qualche giornale per le sue dichiarazioni antimafia, e che, con tanti omissis,
racconta la sua tormentata storia fino all’abbandono del sacerdozio per sposare
una donna dalla quale, sembra di capire della memoria, aspettasse un figlio. Sembrerebbe,
da quel che si dice in giro, ma noi non ci crediamo e non ce ne importa
davvero nulla, che il tizio non sia più sposato.
Il documento che è riemerso come un messaggio in bottiglia dalle infinite acque della rete informatica, è un interessante spaccato sulla vita dell’arcidiocesi del tempo raccontata dagli occhi amareggiati dell’ex don e anche una luce su una vicenda vocazionale che probabilmente non sarebbe mai dovuta iniziare.
Come lo stesso rivela riportando
una conversazione col cardinale Salvatore Pappalardo che gli avrebbe detto: “Solo
in un’occasione, quando ormai la data dell’ordinazione presbiterale era
stabilita, si limitò ad affermare: ‘Non ti avrei mai ordinato diacono se avessi
saputo di te certe cose…’”. Già, forse l’errore è stato appunto quello di dargli
fiducia e ordinarlo prima diacono e poi sacerdote. Non sappiamo cosa fossero le "certe cose" ma lo possiamo immaginare o sospettare.
A Sua Eccellenza rev.ma
Salvatore De Giorgi, Arcivescovo.
Prima di iniziare questa memoria
desidero benedire la bontà di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo che mi ha
chiamato al servizio della comunità ecclesiale ed all’annuncio del Vangelo
tramite il dono soprannaturale del sacerdozio. Dichiaro di amare la comunità
ecclesiale e di venerare tutti i suoi insegnamenti.
Eccellenza, mi risolvo dopo una
lunga ed attenta riflessione a chiedere la riduzione allo stato laicale con
annessa dispensa dal celibato. Questa richiesta è stata preceduta da alcuni
periodi di pausa dall’esercizio del ministero che Sua Eccellenza ha voluto
concedermi perché giungessi ad una decisione ben ponderata. Nel corso di
quest’ultimo anno si sono chiarite in me le principali motivazioni, generali e
particolari, e le cause, recenti e remote, che mi conducono a questo passo.
Non occorre molto per raccontare
la mia storia vocazionale. Sono nato il sabato di Pasqua del …., secondo di
quattro figli maschi, in una minuscola casa popolare del quartiere palermitano
della Noce. Mio padre era operaio, mia madre casalinga. L’educazione mia e dei
miei fratelli è semplice: la scuola, la parrocchia di S. Ernesto, ove ebbi la
fortuna di essere affidato, sin dall’età di cinque anni, per la preparazione
alla prima comunione e successivamente come piccolo ministrante ed iscritto
all’azione cattolica, alle cure di Don («Padre») Giuseppe Castiglione, morto in
fama di santità. Ricordo che sin da allora manifestavo la volontà di essere
prete. La mia famiglia è religiosa da sempre; la figura del sacerdote (Don
Francesco Pizzo ed il cugino Giuseppe, parroco di S. Ernesto, Don Fanara…) è
sempre stata presente e familiare per noi piccoli.
All’età di nove anni lasciai
questo ambiente ricco di rapporti ed esperienze per andare a vivere con una
coppia di zii (lei sorella di mia madre, lui di mio padre) senza figli. Questa
zia era stata adottata e viveva, insieme al marito, praticamente nella stessa
casa di una sorella della madre, sposata ed anche lei senza figli. Gli zii
inoltre vivevano nello stesso stabile ed in stretta comunione di rapporti con
la mia nonna materna, vedova, la seconda delle tre figlie di quest’ultima ed
altre quattro sorelle della nonna, tutte nubili.
Le condizioni economiche di
questa nuova famiglia erano sensibilmente migliori rispetto a quella dei miei genitori
ma andavo ad inserirmi in una realtà che mi era estranea, dominata da una
moltitudine di figure femminili, per lo più anziane, e da nessuna figura
materna. La voglia di non deludere, soprattutto nella scuola, e la difficoltà
di manifestare bisogni, disagi e desideri, ma soprattutto il trauma di essere
strappato all’ambiente d’origine, fecero di me un bambino isolato e nevrotico.
Perciò ho vissuto il mio ingresso al seminario minore, nell’autunno del 1970,
senza il dolore della separazione dalla famiglia, anzi, come la coronazione di
un desiderio coltivato da tanto tempo.
Ricordo gli anni del seminario
minore tra i più belli della mia giovinezza. La sede si trovava allora in via
Vespri, un grande complesso che il Card. Ruffini aveva dotato di alcune strutture
d’avanguardia: laboratorio scientifico, palestra, campi sportivi ed una grande
cappella. Qualcuno lamentava che il seminario non contasse che centodieci
alunni, quell’anno. La mia classe era composta da ventiquattro ragazzi. Il
clima era sereno, c’era un’atmosfera di impegno, tutto un fervore di attività
parallele alla preghiera ed allo studio: sport, teatro, cinema, giardinaggio.
In estate ci si recava per un mese a Baida per il seminario estivo. In quegli
anni ho incontrato alcuni dei sacerdoti che più stimo: Salvatore Di Cristina,
Pietro Magro, Giovanni Oliva, Pino Sclafani, Mario Golesano, Salvatore La Sala,
Pino Puglisi ed allacciai amicizia con parecchi compagni, alcuni dei quali sono
sacerdoti: Cesare Rattoballi, Mario Cassata… Erano anni di sperimentazione,
anche nella Chiesa ed il seminario era un vero laboratorio di nuove proposte
formative. Allora non potevo certo rendermene conto, ma le idee del Concilio
passavano attraverso lo stile e la prassi dei superiori, quasi sempre giovani
sacerdoti o addirittura freschi di studi e prossimi all’ordinazione. Ma le idee
nuove e le inquietudini che filtravano dal mondo esterno, a mano a mano che la
crisi degli anni ’70 andava maturando, portavano con loro anche dei problemi.
Le vocazioni andavano scarseggiando, il numero dei seminaristi diminuiva
sensibilmente ogni anno.
Nel 1974 la «Sesta Casa», il
vecchio seminario minore di via Vespri, fu chiusa per sempre. Ci trovammo così
in quarta ginnasiale, essendo rimasti una ventina, a dover cambiare sede ed
istituto scolastico. Trovammo sistemazione presso l’attuale Seminario Maggiore,
in via Incoronazione; per la scuola ci recavamo ogni mattina al seminario di
Monreale, nei cui locali era distaccata una sezione del ginnasio Guglielmo II.
Si tratta di anni importanti per la mia formazione umana ed affettiva.
Nonostante i ritmi comunitari, non mancavano i contatti con giovani non
seminaristi. Tra i nostri compagni di classe c’erano anche alcune ragazze. Fu
senz’altro per via di quest’aria di apertura che, conclusisi i due anni di
ginnasio, noi seminaristi decidemmo di iscriverci al liceo statale Vittorio
Emanuele II pur continuando l’esperienza comunitaria a tempo pieno nella
comunità del seminario minore. I superiori, in particolare Don Salvatore Di
Cristina, nominato rettore proprio quell’anno, assecondarono la decisione.
Essendo rimasti in quattordici ci trasferimmo nella sede di Piazza Peranni. Si
trattò di un’esperienza dolorosa ed esaltante ad un tempo. L’affiatamento tra
noi ed i superiori, Di Cristina, prima, Alessandro Manzone e Rosario Giuè
successivamente, era così forte che si può parlare davvero di una comunità
autogestita fino nei più piccoli dettagli: dalla liturgia, alla formazione, gli
orari, ai contatti con l’esterno, alla manutenzione della casa, la pulizia
degli ambienti, il giardino, l’arredo e persino la preparazione della colazione
e della cena. I rapporti con i compagni e le compagne di scuola erano intensi
ed essi frequentavano assiduamente e con naturalezza la nostra casa.
Ma si trattava degli ultimi
slanci di un’esperienza in via di esaurimento. I tempi della sperimentazione
erano ormai finiti, il seminario minore era destinato a scomparire; la Curia,
attraverso l’economo, ci faceva sapere che non era vantaggioso tenere in piedi
una comunità di poco più di dieci seminaristi. Il seminario minore doveva
chiudere. Poiché noi seminaristi avremmo voluto proseguire in una istituzione
della diocesi il nostro cammino vocazionale, il Card. Pappalardo, nel corso di
una nervosa riunione, ci disse che avremmo dovuto noi stessi trovare qualche
sacerdote disposto ad assumersi l’incarico di rettore. Ricordo che contattammo,
tra gli altri, il compianto Don Giosuè Bonfardino, il quale rifiutò.
La brusca fine del seminario
minore per banali motivi di amministrazione avrebbe lasciato in me un
risentimento profondo che non sarei mai più riuscito a superare. Mi sentivo
tradito dalla mia Chiesa. Per la prima volta mi rendevo conto che motivi di
carattere economico avevano la meglio su qualsiasi altra considerazione e
valore in una scelta pratica della diocesi e potevano prevalere persino sulle
persone stesse.
Trascorsi a casa dei miei
l’ultimo anno di liceo e il primo di teologia. Anni importanti anche questi,
perché ricchi di idealità, progetti, sogni; di affettuosi rapporti di profonda
amicizia con molti coetanei e di speciale tenerezza per una ragazza.
Nell’autunno del 1979 entrai come
interno al seminario maggiore. Il rettore era allora Mons. Vincenzo
Cirrincione, attuale vescovo di Piazza Armerina. L’intero gruppo dei superiori
era stato nominato proprio quell’anno. La comunità del seminario maggiore,
infatti, usciva da un periodo drammatico. L’anno precedente si erano verificati
episodi di omosessualità nei quali erano coinvolti alcuni seminaristi; uno di
questi aveva infine tentato di suicidarsi in seminario.
Al “minore” avevo vissuto
un’esperienza formativa ed umana di prim’ordine, che sovrastava di gran lunga
gli stili e i modelli – che mi apparivano grossolani, sprovveduti dal punto di
vista pedagogico, spiritualmente poveri e culturalmente antiquati – proposti
dai responsabili negli anni del seminario maggiore. Il tipo di prete che in
quel mondo a misura di parroco si andava formando mi appariva del tutto
estraneo alla necessità di incarnare un’umanità a misura del mondo, di plasmare
in se stessi il modello dell’uomo di tutti, di rappresentare esistenzialmente
l’uomo delle beatitudini, le forme di un’umanità universale. Preparati a
compilare a dovere il modulo del processicolo matrimoniale – come ebbe a dire
icasticamente, appena qualche anno fa, un vescovo siciliano – ma incapaci di
un’ermeneutica salvifica dell’oggi.
Gli anni del seminario maggiore
trascorsero proficuamente, dal punto di vista della mia preparazione teologica,
ma con un disagio e una delusione crescenti dal punto di vista umano. A causa
delle lotte intestine al collegio dei docenti, della scarsa considerazione da
parte dell’episcopato siciliano e della crisi legata al delicato passaggio
istituzionale verso l’erezione a facoltà teologica, gli allievi dell’Istituto
teologico S. Giovanni, ed in particolare i seminaristi, vivevano un profondo
malessere. L’ultimo nostro anno di teologia fu particolarmente sofferto. Gli
allievi furono, in maniera più o meno aperta, accusati dal Preside, Mons. Crispino
Valenziano – una persona ossessionata dalla paura che la sua creatura potesse
naufragare – di complottare contro la facoltà. I seminaristi che sostennero in
quell’anno l’esame di baccellierato si videro abbassare di un voto il risultato
dell’esame finale. Io stesso fui più volte convocato dal Preside ed invitato a
cambiare istituto.
Anche in questa circostanza il
Card. Pappalardo si sottrasse alle sue responsabilità. Solo in un’occasione,
quando ormai la data dell’ordinazione presbiterale era stabilita, si limitò ad
affermare: «non ti avrei mai ordinato diacono se avessi saputo di te certe
cose…».
Poi mi consegnò il seguente
biglietto:
Ecco alcuni punti sui quali il
caro… è invitato a riflettere e progredire:
– segno d’intelligenza è non
l’essere tenacemente attaccati al proprio giudizio ma saper considerare e
tenere in conto anche le idee e le ragioni degli altri;
– accettare norme ed indicazioni
di comportamento che vengono date da persone responsabili non è subire violenza
dall’esterno, ma vivere nella Comunità ed evitare atteggiamenti singolari o
stravaganti o talora pericolosi;
– le qualità e le doti che si
possiedono devono essere sempre messe a servizio del ministero e mai fatte
prevalere su di esso e sulle sue esigenze;
– la funzione di guida e di
leadership va svolta con semplicità e modestia, procurando di mettere in mostra
ed utilizzare le capacità degli altri.
Fui ordinato presbitero il
…………….. Quell’anno ho anche conseguito, con il giudizio di magna cum laude il
grado di baccelliere presso la facoltà teologica di Sicilia.
Solo dopo i primi tre anni di
ministero presbiterale, svolto come vice parroco presso la parrocchia di ….
(«andrai con Don …., che ti conosce bene… Non posso mandarti in una parrocchia
qualsiasi, rischieresti di bruciarti subito…», aveva detto il Cardinale il
giorno dopo la mia ordinazione) e di insegnamento della religione cattolica
presso il liceo scientifico …, ottenni dall’Arcivescovo il permesso di
trasferirmi a Roma per un periodo di studi, durato quattro anni, presso la
Pontificia Università Gregoriana, conseguendo la licenza in teologia morale con
il voto di magna cum laude. Nel frattempo svolgevo attività pastorale,
prevalentemente al servizio dei giovani, presso la parrocchia romana di Stella
Mattutina. Nel 1987 ho anche ottenuto la laurea in storia e filosofia presso
l’Università di Palermo con la votazione finale di 110 e lode.
Non potendo continuare gli studi
a Roma, soprattutto a causa delle ristrettezze economiche in cui mi trovavo,
non godendo allora di alcun sostentamento, tornai in diocesi. Il mancato
sostentamento economico si era protratto, dal settembre 1986 agli inizi del
1990, per tutta la durata dei miei studi di perfezionamento in teologia morale
presso l’Università Gregoriana di Roma. Al proposito ripeto quanto già ho avuto
modo di dire a Sua Eccellenza e cioè che il Card. Pappalardo assicurò che si
sarebbe provveduto in qualche modo al mio sostentamento, assicurazione cui la
diocesi non riuscì in seguito ad ottemperare, nonostante per due volte, in
tempi diversi, avessi fatto presente la cosa allo stesso Arcivescovo e al
responsabile dell’istituto diocesano per il sostentamento del clero, allora
Mons. Vincenzo Manzella. La mia permanenza romana ed i miei studi furono in
qualche modo resi possibili solo ed esclusivamente grazie alla carità di alcuni
amici sacerdoti (Don Piero Magro, in primo luogo), di alcune persone buone e
dell’ospitalità dell’amatissimo Mons. Gabriele Perlini, parroco della comunità
romana di Stella Mattutina.
Se menziono questi fatti è solo
perché tutto ciò ebbe conseguenze negative che si sono prolungate fino a tempi
recenti. Infatti proprio a causa delle ristrettezze economiche in cui versavo
mi vidi nell’impossibilità di conseguire il dottorato in teologia e dovetti
proseguire la stesura della tesi a Palermo. Rientrato a Palermo dal mio
soggiorno di studi a Roma ho iniziato la stesura della tesi di dottorato sotto
la direzione del prof. S. Privitera. Dal 1990 ad oggi ho insegnato teologia morale
fondamentale e tenuto seminari sul gradualismo teologico-morale, prima presso
lo studio teologico «S. Luca», di Catania, poi a Palermo, presso la nostra
facoltà teologica, col titolo di assistente alla cattedra di teologia morale e
dal 1994-95 anche presso l’Istituto teologico «B. Giovanni Duns Scoto», della
provincia siciliana dei frati minori conventuali, tenendovi i corsi di morale
fondamentale, dottrina sociale della Chiesa, morale della vita fisica, logica e
cosmologia. Dal 1994 sono dottorando presso la cattedra di filosofia del
diritto dell’Università di Palermo. Ho svolto la mia attività di ricerca anche
attraverso la pubblicazione di articoli su riviste scientifiche ed intervenendo
a conferenze e convegni dedicati soprattutto a tematiche di bioetica, etica
sociale, diritti dell’uomo. Dal 1993 al giugno del 1996, infine, ho prestato il
mio servizio pastorale presso la chiesa di …., in qualità di rettore.
Il …. ho consegnato le mie
dimissioni dalla facoltà teologica di Sicilia e successivamente da tutti gli
altri incarichi di insegnamento teologico. Anche se precedute da una lunga
crisi iniziata con il martirio di Padre Puglisi, che diede l’avvio in me ad una
riflessione sulle colpe della nostra comunità diocesana in quella morte, le
vicende cui sono legate tali dimissioni costituiscono la causa prossima che mi
fa risolvere alla richiesta di lasciare il ministero.
Non credo sia il caso di scendere
ulteriormente nei dettagli di questa vicenda, che, del resto, ho già illustrato
a Sua Eccellenza nella mia lettera del …. Ripeto solo che le mie dimissioni
furono dovute al fatto che in vari colloqui e, in almeno un’occasione, anche in
presenza del preside e del vice preside di allora, rispettivamente i professori
Salvatore Di Cristina, e Aldo Naro, il prof. Salvatore Privitera ha rinunciato
alla difesa della mia tesi dottorale sulla (a suo tempo da lui presentata, nel
suo impianto generale, al consiglio dei docenti di codesta facoltà ed in quella
sede debitamente approvata) motivando questa sua posizione con la denuncia
dell’errata impostazione della tesi, dalla quale procederebbe, ad onta di
numerose ed esplicite dichiarazioni in contrario in essa contenute, la fallacia
logica di stampo relativista, decisionista, non cognitivista…
In realtà il rifiuto del direttore
della tesi a difenderla in sede dottorale fu dovuta ad una sua incomprensione
o/e intolleranza di una impostazione teologico-morale diversa da quella che
egli riteneva di dover personalmente sostenere. A questo proposito colgo
l’occasione per ribadire la mia adesione a tutto ciò che è insegnato in materia
di morale dal Magistero ecclesiale, ed in modo particolare dal concilio
Vaticano II, e nuovamente respingo qualsiasi accusa di relativismo morale.
L’episodio delle mie dimissioni
dalla facoltà teologica, come dicevo, è stato particolarmente rilevante per la
mia richiesta di essere sospeso dal ministero. Come si vede da questa
deposizione, nel corso di quasi quattordici anni di ministero non ho mai
ricoperto particolari responsabilità pastorali. La mia presenza ecclesiale è
stata caratterizzata da una certa marginalità. Prima che accadesse l’ultimo
degli episodi esposti ritenevo, in tutta semplicità, che ciò corrispondesse
alle intenzioni dichiarate dei superiori, in particolare dell’Arcivescovo, il Card.
Pappalardo, e successivamente del suo vicario generale Mons. Salvatore
Gristina; l’intenzione, cioè, che il mio ministero si svolgesse nel campo della
ricerca teologica e dell’insegnamento. Questo, infatti, era il compito
esplicitamente assegnatomi dall’Arcivescovo per motivare, per esempio, la mia
permanenza a Roma e tutti gli altri incarichi pastorali affidatimi in questi
anni. Perciò l’indifferenza manifestata dai superiori di fronte alle mie
dimissioni dall’insegnamento presso la facoltà è stata per me profondamente
rivelatrice dei dubbi e del sostanziale scetticismo che in realtà essi
nutrivano sull’autenticità del mio impegno ecclesiale e sulla mia fedeltà al
Magistero.
Certo, la mia sfera affettiva non
è integra, nel senso che mi porto dentro ferite antiche alle quali si sono
sovrapposti successivi errori. In particolare, sin dalla formazione in
seminario e dall’ordinazione ho sempre commesso un errore di valutazione, che
mi ha portato a credere che questa mia fragilità non mi avrebbe impedito di perseguire
l’obiettivo di contribuire “dall’interno” alla crescita della Chiesa. Perciò
nonostante l’attrattiva della vita coniugale e nonostante l’inadeguatezza
dell’istituzione del celibato ecclesiastico rispetto alla sensibilità ed alla
cultura degli uomini e delle donne di oggi fosse sempre più chiara nella mia
mente, mi sono sforzato di rimanere fedele al ministero ed alla promessa di
celibato per amore del mio popolo, anche a prezzo di sacrifici e dilanianti
rinunce. Ma una volta giunto alla conclusione di essere stato deliberatamente
posto in isolamento per tredici anni (e, ancor prima, fin dai tempi del
seminario maggiore) oggi avverto che sarebbe contrario alla volontà di Dio
reprimere il desiderio di ricostruire una mia integrità affettiva e di conquistare
un equilibrio interiore con l’aiuto della persona che amo. Ma credo soprattutto
che il Signore mi chiami oggi ad un ministero di carità, ancora più
impegnativo, nella vita coniugale, nell’accoglienza della vita, nell’educazione
dei bambini e dei giovani all’amore, nell’aspirazione ad una pienezza di vita
umana.
Quanto ai miei superiori di
questi anni mi rammarico solo della loro sconfortante mancanza di coraggio che
ha seppellito, per accidia, per cupidigia, vanità, attaccamento al potere o
semplicemente per paura di supposti «atteggiamenti singolari, stravaganti e
talvolta pericolosi», innumerevoli talenti che lo Spirito aveva disseminato
nella comunità ecclesiale.
Eccellenza, eccomi alla fine di
questa confessione. In questi giorni cerco di relativizzare la mia esperienza e
di inserirla in un più grande travaglio in cui si trova tutta la Chiesa.
Non penso di sbagliarmi, almeno
su questo: una parte delle mie contraddizioni sono in realtà quelle di tutta
intera la nostra comunità, che, proiettata su uno scenario che è sempre più
vasto ed assume sempre più le dimensioni universali di quella messe su cui si
posa lo sguardo di Cristo nel vangelo, in qualche modo, nonostante tutto, va
liberandosi delle sue visioni contingenti. Forse questa goccia di sofferenza
nel mare della Chiesa e del mondo potrà rivelarsi non del tutto inutile in
futuro. Allora potrà ricevere un bagliore di significato nella logica che
sostiene la speranza del chicco di grano.
Eccellenza rev.ma,
approfitto dell’occasione, nel
consegnarle questa nuova versione leggermente riveduta della mia memoria per la
dispensa, per porgerle l’augurio di un S. Natale e rinnovarle i sensi della mia
stima e del mio affetto per lei.
Sento dai giornali e dai discorsi
di tanti amici che anche l’arcivescovo di Palermo è finalmente impegnato in
modo convincente nella fatica di quanti cercano di redimere le nostre Chiese da
ogni collusione ed indulgenza nei confronti di certe forme di peccato. Lei,
Eccellenza, ha saputo trovare parole migliori – vorrei dire “più evangeliche”
ma certamente più sincere – di quanto non si sia riusciti nel nostro recente
passato ecclesiale. Parole più credibili perché invitano a denunciare il male
guardando in primo luogo a quello che è presente proprio in seno alla stessa
comunità ecclesiale.
Non è affatto un caso che
avvengano solo adesso fatti di inaudita gravità, che sembrano riportarci a
trascorsi tenebrosi, e scene penose come quella che vede il nostro vescovo
pubblicamente schiaffeggiato dal prete palermitano più notoriamente corrotto
degli ultimi trent’anni.
Vorrei consolarla, Eccellenza,
anche se ne sono del tutto indegno, dicendole che stanno semplicemente colmando
la loro misura. Mi riferisco, oltre alla persona che ha compiuto questo gesto,
anche ad altre che lei ha in qualche modo allontanato ed altre ancora che
rimangono tuttavia al loro posto. Sono mercenari, non pastori, che, nonostante
l’avvicendarsi nella cattedra palermitana di tre cardinali, hanno sempre goduto
il favore di chi invece avrebbe dovuto allontanarli. Sono gli stessi che, forse
perché troppo occupati a progettare centri commerciali, hanno lasciato solo e
senza aiuti P. Puglisi e quei pochi impegnati nei centri sociali, l’unico
efficace strumento non repressivo che in questi anni la comunità civile e quella
ecclesiale abbiano saputo inventare per combattere la mafia. Sono gli stessi
che hanno spogliato parrocchie ed antiche chiese, depredato ed abbandonato al
degrado il patrimonio culturale e spirituale della Chiesa, mentre decine di
parroci di periferia venivano lasciati operare, per anni ed anni, senza
strutture, senza oratori, senza canonica, senza neppure luoghi di culto degni
di questo nome, in luoghi malsani, capannoni industriali, autorimesse…
Quegli equilibri di potere che
hanno impedito per anni lo sviluppo civile, economico, culturale e spirituale
del Paese sono stati garantiti, nella nostra città da queste stesse persone
scambiando consenso e privilegi. Ovunque, nella Chiesa di Palermo per
venticinque anni è prevalso il calcolo economico sull’interesse pastorale ed il
benessere spirituale della nostra gente.
Ma certamente lei conosce tutte
queste cose.
Nell’esempio biblico del servo
sofferente a causa degli empi l’uomo buono trova il proprio conforto.
Desidero ringraziarla ancora una
volta per la bontà, anzi la delicatezza, con la quale lei mi ha trattato nel
breve periodo in cui le sono stato affidato come sacerdote e per il bene che
lei ha già fatto a questa Chiesa.
Fraternamente suo
Palermo, 17 dicembre 1997
G.P.T.R.
Riceviamo e pubblichiamo. Il testo sopra riportato, scritto da un ex sacerdote che ha scelto di abbandonare il ministero ecclesiastico, presenta una serie di affermazioni che richiedono un'analisi critica. Mentre è importante rispettare le scelte personali di ognuno, è altrettanto cruciale esaminare le argomentazioni e le motivazioni espresse dall'autore in modo obiettivo e critico.
RispondiEliminaInnanzitutto, l'autore sembra dare molta importanza alla sua formazione e alla sua educazione religiosa, ma sembra trascurare il fatto che ha avuto l'opportunità di studiare teologia e morale presso università rinomate. Queste opportunità educative non sono affatto comuni, e molti aspiranti sacerdoti non hanno la stessa fortuna di ricevere tale istruzione di alto livello.
L'autore critica amaramente la Chiesa e i suoi superiori, sostenendo che è stato messo in "isolamento" e trascurato dai suoi superiori. Tuttavia, il testo non fornisce dettagli specifici su come questo isolamento sia stato effettivamente perpetrato. È importante considerare che la Chiesa è un'istituzione gerarchica con regole e direttive specifiche, e le aspettative dei sacerdoti possono variare notevolmente in base all'incarico e alle responsabilità assegnate.
Inoltre, l'autore sembra mescolare questioni personali con critiche più ampie alla Chiesa. Ad esempio, la sua lamentela riguardo al sostentamento economico durante gli studi sembra essere una questione personale e non dovrebbe essere utilizzata come argomento per criticare l'intera istituzione ecclesiastica.
L'autore sottolinea anche la sua delusione per la sua esperienza all'interno del seminario e delle istituzioni ecclesiastiche. Tuttavia, non tutti gli aspiranti sacerdoti hanno esperienze negative nei seminari o con i loro superiori, e le esperienze personali non dovrebbero essere generalizzate per tutta la Chiesa cattolica.
Infine, l'autore critica l'istituzione del celibato ecclesiastico e suggerisce che sia inadeguato rispetto alla sensibilità e alla cultura contemporanee. Tuttavia, il celibato è una tradizione millenaria nella Chiesa cattolica e ha un significato spirituale profondo per molti sacerdoti. Le opinioni personali sull'argomento possono variare, ma il celibato non può essere semplicemente respinto come obsoleto senza una discussione più approfondita.
In conclusione, il testo presenta una serie di critiche e lamentele personali, il tono è sempre querulo, che sembrano basarsi su esperienze individuali piuttosto che su questioni più ampie all'interno della Chiesa cattolica. È importante esaminare queste affermazioni con spirito critico e considerare che ogni individuo ha un'esperienza unica all'interno della Chiesa. Le critiche dovrebbero essere supportate da dati e fatti concreti per essere considerate valide e rilevanti per una discussione significativa sulla Chiesa cattolica e il suo ministero sacerdotale.
Un commento di un lettore:
RispondiEliminaLa decisione dell'autore di non osservare il celibato, una delle tradizioni più sacre della Chiesa cattolica per i suoi sacerdoti, può essere vista da diverse prospettive, ma certamente merita una critica approfondita.
Innanzitutto, il celibato è stato un aspetto fondamentale del sacerdozio cattolico per secoli ed è stato difeso e rispettato da generazioni di sacerdoti. È stato considerato un atto di consacrazione e un segno di dedizione completa a Dio e al servizio della Chiesa. L'autore sembra ignorare questa tradizione millenaria e decide di abbandonarla in modo apparentemente disinvolto.
Inoltre, la decisione di non osservare il celibato solleva inevitabilmente domande sulla coerenza e l'adesione ai principi della fede cattolica. Il celibato non è una regola imposta casualmente, ma è una parte integrante della dottrina cattolica. Abbandonarlo può essere visto come un atto di ribellione contro le leggi e gli insegnamenti della Chiesa.
La decisione dell'autore potrebbe anche sollevare preoccupazioni etiche, specialmente se ha fatto questa scelta mentre era ancora un sacerdote in servizio attivo. Ci sono norme e regolamenti chiari sulla condotta dei sacerdoti nella Chiesa cattolica, e il non osservare il celibato potrebbe essere considerato una violazione di queste regole.
Inoltre, il celibato è stato spesso visto come un atto di sacrificio personale in cambio di un impegno spirituale più profondo. Abbandonarlo può far sorgere interrogativi sulla motivazione personale dell'autore e sulla sua dedizione alla sua vocazione religiosa.
Infine, la decisione di non osservare il celibato può avere conseguenze sociali complesse, specialmente in una società in cui il celibato è spesso visto come un segno di impegno e di disciplina. Questa scelta potrebbe suscitare giudizi negativi da parte della comunità cattolica e della società in generale.
La decisione dell'autore di non osservare il celibato solleva molte domande e preoccupazioni, non solo in termini di tradizione religiosa, ma anche in termini di etica e disciplina personale. È una scelta che merita una critica seria e approfondita, considerando l'importanza del celibato nella Chiesa cattolica e nella vita di un sacerdote.
"https://terradinessuno.wordpress.com/2008/11/19/perche-scelgo-lo-stato-laicale-lettera-di-un-giovane-prete-al-suo-vescovo/
RispondiEliminaEcco chi è l'anonimo autore della lettera.
Alla fine questo signore è nel posto dove doveva stare fin dall'inizio: fuori dalla Chiesa!
RispondiEliminaGiampiero Tre Re!
RispondiEliminaDisgustoso
RispondiEliminaChe schifo!
RispondiElimina